Quel che non c’è più

di saraceracchi2014

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Tutto quello che non c’è più, un tempo sembrava non dover mai finire.

Non c’è più, ad esempio, il negozio della MdF, dove dopo il lavoro mi fermavo a chiacchierare per ore, fino a trovarmi a servire i clienti: negozio che chiamavamo pub, dove sono passati amici, bimbi appena nati e già cresciuti, fidanzati ora mariti, visitatori inopportuni.

Non c’è più Memma e la sua passeggiata trotterellante verso di me quando rientravo a casa, tutte le volte, fossero state anche ventimila al giorno; non c’è più Jan, irruento e dolcissimo, i tunnel che aveva scavato intorno a tutta la casa, e non ci sono più i polveroni che sollevava incipriando tutto il cortile.

Non c’è più nonno Elio superstar con le tasche piene di caramelle Rossana da contrabbandare a Jan, non c’è più nonna Elvira, piena d’amore e furbizia.

O almeno, non si vedono.

Non ci sono più libri da studiare entro una certa data, e dispense sbattute al muro come una pazza quando non ne potevo più.

Non ci sono state più le nottate a girare in macchina senza meta, ad incontrare volpi ed istrici, e a discutere di problemi a cui eravamo troppo affezionati per volerli risolvere davvero; non ci sono più le mie domeniche a girare cortometraggi, le giornate intere ad attraversare Roma e a fare conoscenze impensabili per raggiungere scopi che, sembra, non ci siano più.

Non c’è più quell’Epifania nevosa, quando in minigonna presi quella Freccia Rossa per andare ad incontrare lui a Spello, per l’ultima volta; non c’è più travestirmi da maggiorenne per entrare all’Auditorium Rai a vedere la prima serata di Raiuno. Non ci sono più quelle lunghe corse liberatorie, sempre più leggere, per rientrare finalmente nei miei panni, non c’è più Copacabana affollata all’alba e i ragazzi carioca che facevano sculture di sabbia; non c’è più quella giornata intera a fare il pane come lo faceva nonna, e la febbre che è arrivata la sera.

Non ci sono più quegli estenuanti allenamenti di ballo col cuore a pezzi, quella voglia di finire e poi la nostalgia per le nottate a ballare, per il sudore contenuto nei cappotti fino alla macchina, le docce alle cinque del mattino, e poi combattere contro l’adrenalina per prendere sonno; non ci sono più pianti delle amiche da raccogliere e anche questo in qualche modo riesce a mancare.

Non ci sono più le notti al mare intorno ai fuochi, o me e te da soli, su un litorale tutto nostro, in quella notte da favola, con la luna a spiarci.

E mille altre cose, più vicine oppure lontanissime, come quelle giocate estive pomeridiane infinite, e quel lavarsi all’imbrunire, cambiarsi i pantaloncini da sporcare il giorno dopo. Non ci sono più.

Di ciò che ho ora un giorno sentirò la mancanza come di quelle altre, stringerò le mani e gli occhi e non le troverò da nessuna parte. Soffocherò il pianto, come faccio quasi sempre, o cercherò una consolazione, come faccio ancora più spesso.

Continuo a chiedermi, però, come galleggiando in un laghetto d’inutile, rassicurante irrazionalità, se i ricordi restino vivi da qualche parte del segmento della nostra Storia, in qualche luogo dove sia possibile tornare a viverli nella chiarezza del loro accadere: dove si possa decollare ancora con l’elicottero, tracciare i confini della polenta sulla spianatoia, sfogliare l’Enrico IV nel caldo di via Bosio, perdersi di notte all’Eur ancora senza saper tanto guidare, sentire le sue labbra sulle tue per la prima volta e per quell’attimo non aver più nostalgia di niente.