Sara Ceracchi BusWriter

Scrittura del tempo d'attesa

Tag: ricordi

Partirei dalla fine

Monologo breve

Io partirei dalla fine, da come mi sono sentita quando ci siamo salutati. Una gomitata, ci vediamo per autografarmi il libro, ti devo 9 euro, ok ok, tante care cose. Ho avvertito un senso di liberazione misto a malinconia, di quelle sensazioni che si dimenticano facilmente ma che intanto ti infastidiscono, o forse è altro: non è fastidio, è vuoto.

E’ stata una mattinata assolata, calda, noi ci siamo visti al cimitero. Lui mio cugino l’ha conosciuto, è stato anche amico suo, e al funerale non c’è stato, così è voluto venire a trovarlo.

Come al solito stava sbracciato, lui sta sempre sbracciato, pure a gennaio. L’ho visto prima di parcheggiare perché ha alzato la mano per salutarmi e poi era impossibile non vederlo: è diventato davvero grossissimo. Ha sempre il solito atteggiamento, sommario e sbrigativo, vedo bene quanto poco abbiamo in comune, ed è sempre stato così, per anni, senza che me ne rendessi conto. Ora è sposato lui, e ha l’aspetto di un signore di mezza età, e se non ci ho visto male inizia a mancargli qualche capello.

Ha avuto il covid dice, e sua moglie no.

Quanto ho odiato quella donna, e ora non m’importa nulla neanche di lei, gli chiedo anche come sta, sinceramente interessata. Odiavo vederlo distratto da quella, la trovavo così stupida, così brutta, trovavo così impossibile che la preferisse a me. Ma l’amore, si sa, è un mistero, si posa dove meno si penserebbe.

Hanno un cagnolino in fin di vita, dice affranto, ma io non me lo ricordo così amante degli animali. Però l’amore si sa, fa miracoli.

Ci siamo messi davanti la tomba e abbiamo parlato di quest’anno infernale, di malattie, di lavoro, e anche di Playstation. No, per quello non è mai cresciuto, la Playstation innanzitutto. Mi ricordo che quando ci vedevamo a casa sua, quando era andato a vivere da solo, invece che trovarlo nell’impazienza che arrivassi, lo trovato sempre a giocare con il joystick in mano. A quei tempi adoravo quell’infantilismo, perché adoravo tutto di lui.

Non avevamo nulla in comune, non abbiamo nulla in comune. Ci teneva insieme, ci ha tenuto insieme, ci riportava insieme soltanto la passione. Quel fatto di non poterci resistere, neanche mentre era innamorato di un’altra, neanche mentre io cercavo di farmi un’altra storia. Io lo pensavo comunque, e lui non smetteva di provarci, specialmente se mi allontanavo. 

Ora ce l’avevo lì vicino a parlare di brutture, al cimitero. La fioraia ci ha scambiato per fidanzati, ma fidanzati non siamo stati mai, non abbiamo mai avuto etichette. E certo, non ci sono mai servite, non a renderci felici: la felicità ce la siamo regalata sempre senza avvertire, senza programmare troppo al di fuori di un appuntamento vago, senza mai svelarci quel che pensavamo. Semplici, epidermici, e a me quello sembrava tutto. 

Quella volta che ho tamponato con la macchina, perché l’ho visto passare con la moto e con una sul sellino; quell’altra volta che mi sono persa per le campagne, di notte, per andare da lui…quell’altra ancora che…non so cosa non ho fatto per lui. 

Sono investimenti a fondo perduto, ma quando li fai non lo puoi sapere. Non ti rimane niente di concreto, anzi, sembra ti tolgano qualcosa, come la capacità di lasciarti andare, il coraggio di tentare. Invece no. Ti lasciano quello che serve a poter dire di aver vissuto, a poter dire di aver investito sempre le tue migliori energie in ciò per cui vale la pena: per i battiti accelerati, per le scosse, il calore, le speranze, l’attesa di stringersi, far pace dopo gli abbandoni, dopo le liti furiose. 

Ti lasciano preparata per altri amori, per altre passioni, per tutto quanto fa da barriera alle fredde tombe del cimitero.

Partirei dalla fine. Da quel suo gesto protettivo di spostarmi dal bordo della strada, quando di macchine non ne passavano; dai suoi passi che s’allontanavano pesanti, dalla sua sagoma che tanto ho amato e che ora non mi suscita più niente, se non teneri ricordi. Senza più ombra né memoria di alcun rancore. 

Quel che non c’è più

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Tutto quello che non c’è più, un tempo sembrava non dover mai finire.

Non c’è più, ad esempio, il negozio della MdF, dove dopo il lavoro mi fermavo a chiacchierare per ore, fino a trovarmi a servire i clienti: negozio che chiamavamo pub, dove sono passati amici, bimbi appena nati e già cresciuti, fidanzati ora mariti, visitatori inopportuni.

Non c’è più Memma e la sua passeggiata trotterellante verso di me quando rientravo a casa, tutte le volte, fossero state anche ventimila al giorno; non c’è più Jan, irruento e dolcissimo, i tunnel che aveva scavato intorno a tutta la casa, e non ci sono più i polveroni che sollevava incipriando tutto il cortile.

Non c’è più nonno Elio superstar con le tasche piene di caramelle Rossana da contrabbandare a Jan, non c’è più nonna Elvira, piena d’amore e furbizia.

O almeno, non si vedono.

Non ci sono più libri da studiare entro una certa data, e dispense sbattute al muro come una pazza quando non ne potevo più.

Non ci sono state più le nottate a girare in macchina senza meta, ad incontrare volpi ed istrici, e a discutere di problemi a cui eravamo troppo affezionati per volerli risolvere davvero; non ci sono più le mie domeniche a girare cortometraggi, le giornate intere ad attraversare Roma e a fare conoscenze impensabili per raggiungere scopi che, sembra, non ci siano più.

Non c’è più quell’Epifania nevosa, quando in minigonna presi quella Freccia Rossa per andare ad incontrare lui a Spello, per l’ultima volta; non c’è più travestirmi da maggiorenne per entrare all’Auditorium Rai a vedere la prima serata di Raiuno. Non ci sono più quelle lunghe corse liberatorie, sempre più leggere, per rientrare finalmente nei miei panni, non c’è più Copacabana affollata all’alba e i ragazzi carioca che facevano sculture di sabbia; non c’è più quella giornata intera a fare il pane come lo faceva nonna, e la febbre che è arrivata la sera.

Non ci sono più quegli estenuanti allenamenti di ballo col cuore a pezzi, quella voglia di finire e poi la nostalgia per le nottate a ballare, per il sudore contenuto nei cappotti fino alla macchina, le docce alle cinque del mattino, e poi combattere contro l’adrenalina per prendere sonno; non ci sono più pianti delle amiche da raccogliere e anche questo in qualche modo riesce a mancare.

Non ci sono più le notti al mare intorno ai fuochi, o me e te da soli, su un litorale tutto nostro, in quella notte da favola, con la luna a spiarci.

E mille altre cose, più vicine oppure lontanissime, come quelle giocate estive pomeridiane infinite, e quel lavarsi all’imbrunire, cambiarsi i pantaloncini da sporcare il giorno dopo. Non ci sono più.

Di ciò che ho ora un giorno sentirò la mancanza come di quelle altre, stringerò le mani e gli occhi e non le troverò da nessuna parte. Soffocherò il pianto, come faccio quasi sempre, o cercherò una consolazione, come faccio ancora più spesso.

Continuo a chiedermi, però, come galleggiando in un laghetto d’inutile, rassicurante irrazionalità, se i ricordi restino vivi da qualche parte del segmento della nostra Storia, in qualche luogo dove sia possibile tornare a viverli nella chiarezza del loro accadere: dove si possa decollare ancora con l’elicottero, tracciare i confini della polenta sulla spianatoia, sfogliare l’Enrico IV nel caldo di via Bosio, perdersi di notte all’Eur ancora senza saper tanto guidare, sentire le sue labbra sulle tue per la prima volta e per quell’attimo non aver più nostalgia di niente.