Sara Ceracchi BusWriter

Scrittura del tempo d'attesa

A casa mia

Quando tu sei qui
A casa mia,
Solamente questo
È già poesia

Con le tracce che lasci,
Il rumore dei passi,
L’impronta  sul bicchiere,
L’impronta del calore

Che non posso conservare
Ché certe cose, ahimè,

Prima o poi
si devono lavare.

Quando tu sei qui
A casa mia
Vorrei sparissero le scale
Prima che vai via,


Che il cancello fondesse in un blocco di piombo,
E le strade crollassero tutte di colpo.

Potessi fare una magia
Quando sei qui
A casa mia

Farei che non ricordassi niente
Di quel che devi fare,
Che il tempo si fermasse
non ricordassi posti a cui tornare

Che stessi qui
A lasciar briciole
E il fondo d’acqua
nel bicchiere,
A muoverti e respirare,

A vivere e parlare.

Che fossi sempre qui,
Amore mio,
Fosse qui ogni tua dolcezza
Quassù nel posticino mio,
Che è anche il tuo,
Ché nessun paradiso è così quando ci sei,
Che nessun inferno è più nero
Ogni volta che te ne vai.

Film (8 agosto)

Proprio oggi, amore mio
Questo ricordo netto
Confuso dal rumore delle auto
E l’idea di incontrarti mentre attraversavo la strada
Dopo così tanti giorni
Salutarci attraverso il vetro Ma non è successo,
Non era vero
Amore mio

Canzoni da lontano
Si sentono dal mio terrazzo buio
C’è una festa
E c’è vento
Il terriccio mi insozza i calzoncini bianchi
e quasi mi pungo
Con le rose che sto mettendo via
E col pensiero di te
che devi avermi pensata
Almeno per un secondo
Oggi,
Forse anche ieri,
Che talmente è vero
Da essere felice

Questo vortice di suoni
Di sensazioni sul corpo,
E dentro,
E battiti,
E sangue,
Ed errori e respiri

E la mia connettivite, che sento tutto più acuto, le ferite e i piaceri.
Questo è vivere,
un intreccio di sensazioni senza logica
senza mai sapere se siano vere, Cosa è vero.

Il dolore si sente forte,
forse è vero il dolore soltanto
Forse il dolore è la vita Ma non lo so, amore mio,
cos’è
Non so cos’è davvero,
Diventa un ricordo anche il dolore,
Anche toccarci forte poi diventa un ricordo

Allora è vero tutto quello che resta,
Che vero non sembra,
Le sensazioni, il vortice di suoni che viaggia nell’aria,
La tua voce bella
anche quando sei lontano,

Come ogni volta che ti penso
Salire finalmente le scale
Tornare da me e star qui,
Dormire poi insieme,
Abbracciarmi le spalle,
tu a me, io a te

Sognare di incrociarti sulla strada,
Guardarci negli occhi
Attraverso il vetro,
Stupirci per la casualità,
Farci un cenno muto,
“Che ci fai qui?”,”Ci sentiamo” “Sì, ci sentiamo”.

Amore mio,
sembrava così vero.

Per me tu sei il vino

Per me tu sei il vino
Buono
Migliore con gli anni
Mi stordisci, mi ubriachi
Dovrei dire basta
Invece ne voglio ancora

Rosso,
O Bianco,
Comunque traslucente,
Profumato misto tabacco,
Niente a che vedere
con uno stupido drink.

Per me tu sei il vino,
Il mio calice di tutto,
Il sangue della mia vita
L’ebrezza senza fine
del mio corpo,
Dei miei occhi,
Del mio cuore.

L’essenziale

Non mangio da otto ore,
E non ho fame.
Non ho neanche sete,
E non mi viene voglia di niente.

Immagino una prelibatezza
Qualcosa che mi è sempre piaciuto,
Ma non sento niente
Ne ho quasi disgusto

Mi si spaccano gli angoli delle labbra
E allora sciroppi
E pomate
Quando basterebbe mangiare di più

Ma mi sento una palla
Mi sento di dover sottrarre
Di dover arrivare all’essenziale
Di scoprire dove lo nascondo

Dove si nasconde,
Se sotto le curve delle costole
O sotto gli angoli delle anche
O sotto questa mancanza immensa

Sotto questa coltre di assenza.

Senza rima

Stanca di andare,
Stanca di uscire,
Di mangiare,
Di bere,
Di sbrigarmi,
Di mettermi lo smalto,
Di fare buon viso,
Stanca
Di sentirmi stanca

Del dolore alla schiena

Di guardarmi allo specchio

Di non arrivare mai
A nessun punto
Se non lontanissimo
Da dove volevo

Qui ho disimparato la tenerezza
La dolcezza
La fiducia
La chiamano depressione

Io la chiamo poesia

Senza rima.

Scale

Tra noi
e adesso,
è passato del tempo,
È passato un altro uomo.
Ma della sua viva passione,
non ricordo nulla.


Ricordo invece ogni tuo singolo slancio
Ogni tua pressione tra le mie scapole
Il sapore tuo di vino e tabacco
I morsi
E le scale


che ti portavano via.

Il padre di Roccaluna

Rispetto a “Donne di Gesso”, primo romanzo di Valeria Masciantonio – anche se il confronto non sarebbe obbligatorio -, “Il padre di Roccaluna” mi ha lasciato perplessa.

Il romanzo è breve e vanta la scrittura scorrevole e gradevole tipica di Valeria, quindi l’ho letto rapidissimamente, soprattutto per l’avidità di capire dove sarebbe andato a parare, però verso la fine mi stava lasciando con un senso di incompiuto, non del romanzo, ma di quel nuovo tassello di sé stessi di cui ci si trova arricchiti a conclusione di ogni nuova buona lettura.

Uno dei punti di forza della scrittura di Valeria è il non voler essere melting pot, universale, come sembrerebbe d’obbligo oramai in tantissima letteratura e cinema, ovvero, non narrare storie nelle quali si riconoscano tutti, azzerando le realtà tradizionali locali, le lingue, le consuetudini sociali che non siano cittadine, “illuminate”, o da capoluogo europeo.

Anche ne “Il padre di Roccaluna” quindi si ritrovano maciari ovvero maghi (quelli che normalmente vengono condannati dal buonsenso comune, perché spillano ancora oggi soldi agli ingenui per mettere a punto incantesimi e pozioni), spiriti divisi in categorie (quelli dei boschi, quelli che fanno gli scherzi dentro casa, quelli che sembrano proprio vivi), usanze incredibili che affondano le radici nella storia più antica possibile, ovvero quella di mettere una valigia con beni di prima necessità nella tomba del defunto, perché possa usufruirne nell’aldilà: tutto ruota attorno a questa immobilità, e l’unica isteria è quella che può generare la comunità quando si è anche solo sospettati di essere usciti da regole sociali ultrasecolari e pervicaci, nonostante l’avanzare della Storia. Valeria riesce di nuovo a tratteggiare con grande maestria la realtà per fortuna ancora intatta di un’umanità locale arroccata sulle montagne abruzzesi, e ci riesce grazie a un grandissimo amore per essa, per affondarci la propria essenza e per averla osservata da lontano, quindi meglio, durante gli anni trascorsi a Roma.

Lorenzo, il protagonista, nel quale non riesco a non vedere un alter ego della scrittrice, è un uomo stretto e soffocato da una parte di ricordi che gli rendono pesante la convivenza sociale nei propri luoghi d’origine. Nonostante egli abbia una stabilità affettiva e abbia raggiunto una realizzazione personale, continua infatti ad essere condizionato nella propria serenità dalle dicerie dei compaesani, come vivesse ancora nel medioevo: sospettato di essere un figlio illegittimo, Lorenzo soffre le maldicenze sul conto di sua madre, e la durezza del padre Lucio, il quale col suo comportamento rude sembra avergli sempre dimostrato di non riconoscerlo come figlio. I legami di sangue dunque, la rispettabilità nel paese, hanno un’importanza enorme, fuori dal tempo, che dall’esterno si fatica a interiorizzare. Perché Lorenzo e Lucio non hanno mai pensato di sottoporsi a un esame del DNA per essere sicuri della loro consanguineità? Per il timore di venire a conoscere una verità scomoda, diffamante? Ed è così tanto più importante mantenere un filo di dubbio e quindi di rispettabilità che sapere con certezza ogni cosa e vivere serenamente? È il quesito che mi ha accompagnato fino a un buon punto della lettura, e che mi ha lasciato con quel senso di irrisolto che dicevo all’inizio, per scoprire alla fine che il punto del libro non è risolvere questo dilemma: il punto è la ricerca dell’essenziale. Lucio, malato di Alzheimer, attraverso la malattia giunge proprio a rivelare l’essenziale di sé e della propria esistenza, che non è essere o meno il padre biologico di Lorenzo, bensì l’essersene preso cura con grande sacrificio, nonostante le poche parole, nonostante la ruvidezza e la lontananza: l’essenziale è l’unica carezza scambiatasi in una vita, e il pianto liberatorio condiviso con l’amatissimo figlio (e anche con chi legge), che lo rende suo al di là di ogni discernimento e pettegolezzo, e più intensamente che per qualunque legame di sangue.

Per fare la tac

Per fare la tac bisogna sdraiarsi,
alzare le braccia e portare le mani oltre testa.
Si sta come mi tieni tu quando facciamo l’amore
E allora io ho pensato a me e te,
mentre facciamo forte l’amore,
mentre facevo la tac
– per non aver paura -.

Breve o lungo che sia,
pensavo al nostro amore
leggero d’ali di farfalla
o di pesanti passi d’elefante,
il nostro amore,
difficile come le paure.

Non sapevo però
che la macchina vedesse anche i miei pensieri:
il radiologo scandalizzato mi ha cacciato via,
non vuol vedermi mai più, dice.
Sta bene, così sia.

Sempre troppo poco

Guido nella notte
Penso a un bel ricordo
Che è già perfetto così


Ma aggiungo dei particolari che non sono accaduti,
quando eri nudo alla finestra
alle 5 del mattino d’agosto.
Anch’io ero nuda, e ti osservavo, ed è stato questo.
Però potevo abbracciarti.
Così faccio che mi avvicino e ti abbraccio,
Lo aggiungo, come in un copione.


Potevo avvicinarmi e abbracciarti ancora
e baciarti anche in quel momento,
Potevo prendermi un abbraccio in più
Invece di guardarti e basta,
Che eri lì in piedi alla luce lieve dell’alba, con la pelle dello suo stesso colore,

quello dell’alba ad agosto.


Perché io ho sempre paura che sia troppo


Quando invece è sempre troppo poco.

Quando un uomo

Quando un uomo
ti prende il viso tra le mani
e stringe quel tanto da non farti male
ma abbastanza perché ti senta sua,
per un attimo o per sempre


Quando un uomo ti tiene il viso tra le mani
e ti guarda negli occhi

anche solo per illuderti,
un uomo con le mani grandi che tiene il tuo viso come fosse un neonato,
per baciarti o perché l’ha appena fatto


Quando un uomo ti tiene il viso tra le mani
ti guarda le labbra per impararle


Un uomo, quando tiene il tuo viso tra le mani
forse non sa davvero quali universi dischiude,
perché se lo sapesse fuggirebbe lontano,
o lo farebbe tutti i giorni


di tenerti un po’ il viso tra le mani.